I giorni speciali

Cos’è il bambino? Una riflessione sull’infanzia nella Festa del 23 aprile

Il 23 aprile in Türkiye si celebra la Ulusal Egemenlık ve Çocuk Bayramı, la Festa della sovranità popolare e dei bambini. Il mio primo pensiero, quest’anno, va ai piccoli rimasti vittima dei tremendi terremoti dello scorso febbraio, alle centinaia di bimbi che si sono ritrovati orfani.

In questo giorno di primavera, nel 1920, è stata aperta Türkiye Büyük Millet Meclisi, la Grande Assemblea Nazionale di Türkiye, il parlamento. Una data fondamentale per la Storia della democrazia turca. In questo giorno si celebra anche la Festa dei bambini perché Mustafa Kemal Atatürk, lui che ha sempre dimostrato la massima considerazione dell’infanzia, ha voluto dedicare la ricorrenza ai più giovani, non solo turchi, ma di tutto il mondo.

Cari amici del Club, cogliamo l’occasione di questa Festa per una riflessione: cosa significa per davvero essere bambino?

Il bambino è per me un essere umano in stato di grazia, un’età straordinaria e irripetibile che tutti abbiamo il diritto di vivere nella più alta serenità possibile, avvolti dall’affetto delle persone vicine. Il bambino è naturalmente portato a essere felice: i suoi pianti possono essere frequenti e intensi, ma presto le nubi passano e vengono dimenticate, se proprio non si tratta di problemi profondi. E così ricomincia a vivere tutto con entusiasmo, esaltandosi per le cose più semplici. I più piccoli spesso subiscono gli eventi, sono dominati dalle emozioni, non è tutto rosa e fiori. Tuttavia, non sanno vegetare nella tristezza, le loro rabbie non lasciano rancore, e non sanno vedere il domani come un’informe massa grigia di cui temere.

L’infanzia è uno stato di grazia destinato a terminare con l’adolescenza – altro periodo primaverile dove però i turbamenti si fanno più fitti ­-, uno stato di grazia transitorio ma con l’immenso potere di determinare quella che sarà la lunga età adulta. L’inestimabile bagaglio di conoscenze, gioie e dolci ricordi che ci portiamo dietro dall’infanzia saranno la marcia in più – talvolta il pilastro a cui appoggiarci – nelle stagioni in cui siamo grandi; stagioni in genere più equilibrate, dove si è più padroni delle situazioni, ma anche più monotone, con i problemi a rischio di calcificarsi.

E poi, è proprio vero che l’infanzia a un certo punto finisce? In realtà, ognuno di noi ha la possibilità di mantenere in un angolo del proprio essere il bambino che era. Da tirare fuori a tratti, a seconda della situazione, del ruolo che stiamo al momento recitando. Se l’adulto ha la capacità di tenere vive le migliori peculiarità del bambino, ha la strada per la completa realizzazione aperta davanti a sé. Quali sono queste peculiarità? Su tutte mi viene in mente la capacità di affrontare la vita con fiducia verso l’avvenire, cogliendo dappertutto quel pizzico di magia, di incanto, tenendo viva la fantasia e lo spirito giocoso che portano al di là degli schemi, delle routine; tutto ciò non può che essere di aiuto a superare gli inevitabili ostacoli.

Come si può essere dei grandi adulti con la A maiuscola grazie anche al bambino che teniamo dentro ce lo insegna lo stesso Atatürk: anche lui, dalla sua altitudine, sapeva mettersi al pari dei bambini, una dimensione tutt’altro che piccola, nonostante la loro statura fisica. Basta vedere come sapeva divertirsi di cuore con la piccola Ülkü, una dei suoi figli adottivi: le immagini del grande leader che spinge la bimba sull’altalena, che dondola lui stesso ridendo come un fanciullo spensierato, non sono da meno rispetto all’Atatürk in alta uniforme militare o che si rivolge solennemente alla nazione nei suoi abiti più eleganti.

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Çocukların ve çocuk kalanların Bayramı kutlu olsun

Buona Festa dei bambini e di coloro che rimangono bambini!

La nostra arte

L’incanto onirico di Istanbul nella poesia di Yahya Kemal

In questa composizione Yahya Kemal, uno dei più grandi poeti del periodo della Repubblica, dichiara l’irresistibile fascino subìto da Istanbul, un’autentica seduzione. Non la sua città natale, lui che è nato a Skopje, oggi Macedonia del Nord; non la città in cui ha vissuto tutta la vita, lui che ha girato mezzo mondo, che ha studiato a Parigi, che è stato ambasciatore della Repubblica di Türkiye in diverse capitali estere – da Lisbona a Karachi -, lui che in patria ha vissuto pure ad Ankara, che anche da pensionato si è dedicato ai viaggi, visitando tra gli altri i principali centri dell’Anatolia e del Medio Oriente. Eppure, come afferma nei versi di quest’opera, nessuna città lo ha stregato più di Istanbul, nessuna città gli è entrata di più nel cuore, arrivando ad amarne ogni singolo angolo.

La parola più bella che usa nella poesia è ‘efsunlu‘, ossia ‘incantato’, in riferimento alle bellezze di questo posto a lui tanto caro. Un incanto che nello splendido finale entra in una dimensione onirica, quasi trascendentale, descrivendo il privilegio di chi trascorre a Istanbul lunghi periodi della propria vita, fino addirittura al termine dell’esistenza, come un’esperienza equiparabile a un lungo, dolce sogno ad occhi aperti, quasi da chiedersi se sia stato tutto vero.

Amici del Club, leggiamola questa poesia, originale e mia traduzione, immaginando di osservare Istanbul come fa l’autore, da uno dei sette colli della Penisola storica:

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Aziz İstanbul
Yahya Kemal Beyatlı

Sana dün bir tepeden baktım aziz İstanbul!
Görmedim gezmediğim, sevmediğim hiçbir yer. 
Ömrüm oldukça gönül tahtıma keyfince kurul! 
Sade bir semtini sevmek bile bir ömre değer.


Nice revnaklı şehirler görünür dünyada,
Lakin efsunlu güzellikleri sensin yaratan.
Yaşamıştır derim, en hoş ve uzun rüyada
Sende çok yıl yaşayan, sende ölen, sende yatan.

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CARA ISTANBUL

Ti ho ieri guardata da una collina, cara Istanbul!
Non ho visto alcun luogo che io non abbia visitato, che non ami.
Per tutta la mia vita accomodati come ti pare sul trono del mio cuore!
Persino amare un tuo semplice quartiere vale una vita.


Si vedono tante appariscenti città al mondo,
tuttavia sei tu delle incantate bellezze la creatrice.
Ha vissuto, dico, nel sogno più piacevole e lungo
chi in te molti anni vive, in te muore, in te giace.

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Per l’ascolto, propongo il video sotto, non solo per l’egregia lettura eseguita da Ekrem İmamoğlu, l’attuale sindaco di Istanbul, ma soprattutto per i disegni in bianco e nero, raffiguranti scorci caratteristici della città, e per la musica trasognata che ben accompagna l’atmosfera del testo:

La nostra arte

Kutlama. La grande festa di primavera di Sezen Aksu

Cari amici del Club, come si può già capire dalla musica, in questa canzone di Sezen Aksu, contenuta nell’album Deniz yıldızı del 2008, si celebra una festa, una grande festa:

KUTLAMA
Testo: Sezen Aksu
Musica: Arto Tunçboyacıyan

Memleketime çoktan bahar gelmiştir
Başakları şimdiden göğe ermiştir
Dağlarını gelincik basmıştır
Yer, gök ve yürek çiçek açmıştır

Kirazlar olmadan tez vakitte
Asmanın sürgün veren dallarında
Nergisin, zerenin taç yapraklarında
Seninle baharı kutlamaya geliyorum

Başımı omzuna yaslamaya
Hayata yeniden başlamaya
Bağında, bahçende, pınarlarında
İçimi yıkamaya geliyorum

Caddelerinde kızlarla oğlanlar
Oynaşıyordur şimdi, ah! hem de nasıl
Başlayan, biten, tazelenen aşklar
Başlıyor ömrümüzde yeni bir fasıl

Kirazlar olmadan tez vakitte
Asmanın sürgün veren dallarında
Nergisin, zerenin taç yapraklarında
Seninle baharı kutlamaya geliyorum

Başımı omzuna yaslamaya
Hayata yeniden başlamaya
Bağında, bahçende, pınarlarında
İçimi yıkamaya geliyorum

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L’ho così tradotta:

LA FESTA

Nel mio paese è già arrivata la primavera
Le sue spighe già raggiungono il cielo
le sue montagne si sono riempite di papaveri
i fiori sono sbocciati nella terra, nel cielo, nel cuore

Al più presto, prima che maturino le ciliegie
sui tralci della vite in germoglio
sulle corolle di tutti i narcisi
vengo a festeggiare la primavera con te

Vengo ad appoggiare il capo sulla tua spalla
a ricominciare la vita
a lavarmi dentro
nella tua vigna, nel tuo giardino, nelle tue sorgenti

Nelle tue strade ragazze e ragazzi
amoreggiano ora, ah! una meraviglia
Amori che iniziano, che finiscono, che si rinfrescano
Inizia nella nostra vita una nuova era

Al più presto, prima che maturino le ciliegie
sui tralci della vite in germoglio
sulle corolle di tutti i narcisi
vengo a festeggiare la primavera con te

Vengo ad appoggiare il capo sulla tua spalla
a ricominciare la vita
a lavarmi dentro
nella tua vigna, nel tuo giardino, nelle tue sorgenti

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Sì, in questo brano Sezen Aksu festeggia la primavera come meravigliosa rinascita di tutta la natura, con una musica che ricorda a tratti quella di una sagra, ma solenne al tempo stesso. Dalle lunghe spighe ai prati in fiore, è una festa che va a braccetto con il rinnovamento di cui gode la vita della protagonista, grazie all’amore appena nato. L’amante stesso si fa rigogliosa natura. La corrispondenza tra la stagione del risveglio e il sentimento amoroso consente di ritrovare la gioventù interiore, con tutta la carica di letizia e di vibrante trepidazione che sprizza la canzone; la scena dei ragazzi per le strade va a rinforzare questo messaggio. Per chi canta, è una celebrazione fuori e dentro, dunque, un incanto da godere prima che trascorra il momento.

Due anni dopo, nel 2010, la canzone si è sposata con il film Mine vaganti di Ferzan Özpetek, amico di lunga data della cantautrice. La scena finale, magistralmente pensata, è infatti accompagnata dalle note di Kutlama. Per chi avesse già visto il film, ripropongo al termine di questo post l’intera sequenza conclusiva: notevole l’iniziale contrasto tra il triste corteo e il ritmo, le parole festanti del pezzo, contrasto che poi diviene totale sintonia con le successive immagini da sogno a occhi aperti… A chi non avesse ancora visto quest’opera del regista turco-italiano, incentrata sul tema della diversità, consiglio invece di non aprire il video sotto, senza anticipare e aggiungere null’altro, in modo che possa godersi la pellicola dall’inizio.

Buona primavera a tutti, con l’augurio che sia anche una primavera interiore!

La nostra arte

‘Come pane intinto nel sale’. L’amore spiegato da Nazım Hikmet e la canzone poetica di Onur Akın

Come ci si sente quando si ama veramente? A cosa assomigliano le sensazioni che si provano?

Amici del Club Culturale Galata, in questa poesia del 1959 scritta a Mosca, Nazım Hikmet, uno dei più grandi poeti di tutti i tempi, ci spiega cosa significa l’amore ardente per una persona, attraverso similitudini con situazioni che possiamo vivere tutti i giorni, immagini tanto semplici quanto pure e ricche di trasporto emotivo, di entusiasmo per le piccole, grandi cose:

SEVIYORUM SENİ
Nazım Hikmet Ran

Seviyorum seni
ekmeği tuza banıp yer gibi

Geceleyin ateşler içinde uyanarak
ağzımı dayayıp musluğa su içer gibi

Ağır posta paketini
neyin nesi belirsiz
telaşlı, sevinçli, kuşkulu açar gibi

Seviyorum seni
denizi ilk defa uçakla geçer gibi

İstanbul’da yumuşacık kararırken ortalık
içimde kımıldayan birşeyler gibi

Seviyorum seni
Yaşıyoruz çok şükür der gibi

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AMO TE *

Amo te
come mangiare il pane intinto nel sale

Come svegliarsi di notte in preda al fuoco
e bere l’acqua con la bocca appoggiata al rubinetto

Come aprire un pesante pacchetto postale
senza sapere che cos’è
con trepidazione, con gioia, con sospetto

Amo te
come attraversare il mare la prima volta in aereo

Come quel qualcosa che si muove dentro me
mentre a Istanbul si fa dolcemente buio

Amo te
Come dire ‘grazie al Cielo, viviamo’

* Traduzione da me curata

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La poesia letta dalla voce dello stesso Nazım Hikmet:

Nel 1995 il musicista Onur Akın ha composto una canzone dallo stesso titolo, ‘Seviyorum seni‘. Oltre a riprendere più volte le prime due strofe della poesia di Hikmet, l’artista aggiunge questi versi tratti dal componimento poetico ‘Ne böyle sevdalar gördüm, ne böyle ayrılıklar‘ (Non ho visto tali amori, ne tali separazioni) di İlhan Berk, un altro grande poeta turco, versi anch’essi carichi di innocente passione:

Ne zaman seni düşünsem
Bir ceylan su içmeye iner
Çayırları büyürken
Büyürken görürüm gülüm her sabah
Her akşam seninle
Yeşil bir zeytin tanesi
Bir parça mavi deniz alır beni

Seni düşündükçe
Gül dikiyorum ellerinin değdiği yere
Atlara su veriyorum
Daha bir seviyorum dağları gülüm
Her akşam seninle
Yeşil bir zeytin tanesi
Bir parça mavi deniz alır beni

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La mia traduzione:

Ogni volta che ti penso
una gazzella scende per bere acqua
Vedo i prati mentre crescono,
mentre crescono, mia rosa, ogni mattina
Ogni sera con te
un’oliva verde
un pezzo di mare blu mi portano via

Più ti penso
più pianto rose nei luoghi che hanno toccato le tue mani
Do acqua ai cavalli
Amo ancor di più le montagne, mia rosa
Ogni sera con te
un’oliva verde
un pezzo di mare blu mi portano via

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Le immagini descritte da Berk, un idilliaco rapporto con la natura associato al massimo dei sentimenti verso una persona, ben si sposano con quelle di Hikmet, rendendo il brano musicale armonico nei suoi significati; un accostamento di poesie che si rivela ben riuscito.

Ora possiamo ascoltare l’intera canzone:

I giorni speciali

18 marzo 1915. La Vittoria di Çanakkale e la poesia ‘Dur yolcu’

Çanakkale geçilmez, (Çanakkale è insuperabile), una frase ben impressa nella mente dei turchi.

Amici del Club Culturale Galata, oggi, 18 marzo, è l’anniversario della Vittoria di Çanakkale, 1915, una delle battaglie chiave della Prima Guerra Mondiale.

Gli inglesi guidati da Winston Churchill, insieme agli alleati francesi, avevano pianificato lo sfondamento dello Stretto di Çanakkale (‘i Dardanelli’), per poi prendere Istanbul. Si dice che gli inglesi erano sicuri di bere il loro famoso tè delle cinque nell’allora capitale, il primo giorno stesso, da conquistatori, dopo aver facilmente passato lo stretto. Invece, dopo un mese di vani tentativi, furono respinti dalle forze ottomane appostate nella Penisola di Gelibolu alla strenua e appassionata difesa dello stretto. A breve seguì il tentativo di offensiva via terra, tramite sbarchi mirati nella penisola, ma il risultato finale fu identico.

Per anni e anni la disfatta rimase una bruciante ferita aperta nell’orgoglio britannico, l’errore di sottovalutazione una macchia indelebile nella lunga e gloriosa vita di Churchill. Il trionfo sul lato opposto rappresenta invece il canto del cigno dell’Impero ottomano, anche perché ancora più avanti le forze straniere riuscirono a occupare Istanbul e causare il definitivo crollo dell’impero, ma al contempo è anche il primo battito embrionale della Repubblica di Turchia, un evento su cui si ispira la successiva Guerra di Indipendenza condotta in prima persona da Mustafa Kemal Atatürk e su cui si fonda l’attuale orgoglio del popolo turco, il suo senso di identità nazionale, di libertà conquistata. È proprio sui campi di battaglia di Çanakkale, infatti, che sale alla ribalta Atatürk come comandante militare e leader. La vittoria è quindi una pietra miliare nella Storia dei turchi, l’anello di giunzione tra il prima e il dopo.

Quello del 18 marzo è un evento epocale, insomma, come invita a riflettere chi passa dalle acque di Çanakkale l’enorme scritta che campeggia sul fianco del monte di fronte alla città, inizio della famosa poesia di Necmettin Halil Onan: “Dur yolcu! Bilmeden gelip bastığın bu toprak, bir devrin battığı yerdir”. Eccola qui, per intero, accompagnata dalla traduzione da me curata:

BIR YOLCUYA
Necmettin Halil Onan

Dur yolcu! Bilmeden gelip bastığın
Bu toprak, bir devrin battığı yerdir.
Eğil de kulak ver, bu sessiz yığın
Bir vatan kalbinin attığı yerdir.

Bu ıssız, gölgesiz yolun sonunda
Gördüğün bu tümsek Anadolu’nda,
İstiklal uğrunda, namus yolunda
Can veren Mehmed’in yattığı yerdir.

Bu tümsek, koparken büyük zelzele,
Son vatan parçası geçerken ele,
Mehmed’in düşmanı boğdugu sele
Mübarek kanını kattığı yerdir.

Düşün ki, haşrolan kan, kemik, etin
Yaptığı bu tümsek, amansız, çetin
Bir harbin sonunda bütün milletin
Hürriyet zevkini tattığı yerdir.

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A UN VIANDANTE

Fermati viandante! La terra che senza sapere sei venuto
a calpestare
è il luogo dove è affondata un’era.
Inchinati e resta in ascolto, questo cumulo silente
è il luogo dove batte il cuore di una patria.

Al termine di questa strada solitaria e senza’ombra
questo dosso che vedi, nella tua Anatolia,
è il luogo in chi giacciono i Mehmet* che hanno dato la vita
per l’indipendenza, sulla via dell’onore.

Questo dosso, mentre scoppia un gran terremoto,
mentre vien conquistato l’ultimo pezzo di patria,
è il luogo in cui i Mehmet* hanno aggiunto il loro sangue benedetto
alla piena in cui hanno affogato il nemico.

Pensa che questo dosso fatto di sangue versato,
ossa e carne, è il luogo in cui,
al termine di una guerra spietata e ardua,
l’intero popolo ha assaporato il piacere della libertà.

* I soldati turchi

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Ascoltiamola:

Le mie poesie

SOPRA ISTANBUL (poesia)

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Sopra i lievi colli di Istanbul
mondi lontani si guardano negli occhi.

Su ardenti acque s’incontrano le loro mani,
soffi che spirano da orizzonti lontani…
Poi s’abbandonano a infiniti tramonti,
ad albe riflesse da antichi giorni.

E raccontandosi storie di umani destini,
momenti sublimi e dolorosi declini,
si diffondono echi di imperi morenti
tra preghiere all’Immenso e grida di genti.

Ancor sospinti da passioni immortali
nei cieli aperti volteggiano bianchi gabbiani,
là, sopra Istanbul, dove i mondi non sono lontani. 

Impressioni quotidiane

FINE SETTEMBRE SUL NAVIGLIO

L’aria è sospesa, rarefattaFine Settembre sul Naviglio, irrorata dalla luce bianca di un pallido sole di fine settembre. Sotto, il Naviglio Grande è a secco. Solo qualche pozza d’acqua ristagna sul letto di fango e di sassi. Inosservato, un uomo d’età avanzata cammina solitario lungo il Naviglio. Tanta strada ha già percorso. Quanto ne abbia ancora da fare, questo non lo sa: c’è foschia all’orizzonte. Pensa quanto asciutti siano ormai i suoi affetti, quanto pallida la sua voglia di vivere, luce calante di lontani sussulti. D’un tratto, si ferma alla balaustra e guarda giù, laddove scorreva fluido il canale. Cerca di cogliere un barlume nei riflessi di una pozza d’acqua, un barlume di significato per il prosieguo del suo cammino. Ma non vede altro che pesci neri, persi entro limiti soffocanti, andare avanti e indietro senza un fine, senza capire.

I miei racconti

TEMPO CANAGLIA (racconto)

Tempo “Mamma, quanto manca?”
“Ancora tanto.”
“Tanto quanto?”
“Ti ho detto tanto. È lunga. Sta buonino.”
Un bambino sui cinque anni sta a malapena seduto sul sedile extra-large di un treno, le gambe a penzoloni, la testolina sommersa dallo schienale. È irrequieto, insofferente. Accanto a lui, una povera mamma che cerca di attingere al suo pozzo di santa pazienza per non sbottare davanti a tutti.
“Siamo arrivati alla stazione! Scendiamo?” Non la smette più il bambino.
“No, non è la nostra stazione.”
“E quand’è la nostra?”
“Devi aver pazienza e stare tranquillo ancora un pochetto. Dai, facciamo un gioco con le carte.”
“Non ho voglia di giocare adesso, voglio arrivare a casa nostra e giocare con Mattia e Michi.”
“E va bene, come vuoi tu, non giochiamo. Cerca almeno di stare composto, però!”
Una prigione. Per lui, il vagone, immenso, opprimente, si è rivelato una claustrofobica prigione. Una prigione dove tutto è noioso e insopportabile. Le facce antipatiche dei due vecchi davanti, il grigio-blu che riveste i sedili, il soffitto piatto, il rumore monotono delle cose che scorrono fuori…Le cose che scorrono …Finalmente qualcosa riesce a catturare l’attenzione del bambino. Fuori dal finestrino, tutto scorre così bene: i pali, i campi, i cascinali, i tralicci della luce, e ancora più dietro le creste delle colline, le nuvole; più lentamente, ma anche loro scorrono. Il tempo, invece, quello no, lui non la vuole proprio sapere di scorrere…
“Uffi! Ma quando arriviamo? Tra poco, vero?” Eccolo che ricomincia, improvviso. La mamma abbassa la rivista che sta provando a leggere mentre alza gli occhi a un ipotetico cielo, la bocca mezzo spalancata.
“No amore, manca ancora tanto.”
“Ma tanto quanto?”
“Non so, quattro ore, cinque, non mi ricordo…smettila di chiedermi ogni tre secondi!!”
Il bambino si fa serio, si irrita anche lui, cerca di imporsi: “Ma che vuol dire ‘ore’? Mamma, non capisco quello che dici, parla bene!! Quanto sono cinque ore?”
La donna guarda giù nel pozzo della pazienza, ma stavolta è proprio a secco; Il suo viso si deforma in una smorfia, preludio della voce che si espande, impetuosa: “Non capisci perché non conosci ancora il tempo! Quando sarai grande, vedrai che capirai!”
“Sono stufo! Non passa, non passa mai, questo tempo…”

Nel giro di un attimo inspiegabilmente spirato in trentacinque anni, il bambino si ritrova a essere un uomo già divorziato, già logorato dal suo lavoro, già ai ferri corti con la vita. Con una faccia ingrugnita è alla stazione che aspetta il treno per recarsi a una triste sentenza, quella per l’affidamento di sua figlia. In piedi sulla banchina, le braccia abbandonate lungo i fianchi, si sta chiedendo cosa non darebbe per ricominciare da zero, dall’età incantata dell’infanzia, per riportare indietro le lancette di ‘sto tempo canaglia. Non riesce nemmeno a chiudere il cerchio di tali pensieri che il suo treno è già in arrivo in fondo al binario, puntuale e inesorabile.

Impressioni quotidiane

LA FINESTRA SUL TEMPO

Uno eLa finestra sul temposce sul ballatoio di una casa di ringhiera, di fronte vede il Palazzo Lombardia, una spada verticale che taglia in due il cielo nebuloso, e dice: “‘Come è cambiata Milano, non la riconosco più!”
Un altro sta al piano panoramico del Palazzo Lombardia, guarda giù, gioca a trovare i punti cardine della sua città, e intanto dice: “In fin dei conti, Milano è sempre la stessa!”
Poi ce n’è uno seduto dietro una finestra che dà su entrambi, la casa di ringhiera e il grattacielo di vetri. Immagina la casa in bianco e nero, e così il grattacielo sembra di un blu ancora più acceso, due mondi contrapposti e ripartiti dall’asse centrale della finestra. Se ne sta appoggiato al davanzale e con un solo sguardo cerca di abbracciare il suo passato e il suo futuro, di ridar colore a quel che è stato e mitigare le inquietudini del presente, di includere in una sola inquadratura gioie, rimpianti e nuove speranze. Infine si ritrae, chiude la tenda e torna alla sua giornata, una giornata come tante che sono state e come tante che verranno.

Impressioni quotidiane

BISCEGLIE LA MATTINA PRESTO

BisceglieNon so perché, ma c’è qualcosa che mi affascina, a Bisceglie la mattina presto.

Che cosa strana. Bisceglie, non la graziosa cittadina della Puglia, ma Bisceglie a Milano, dove c’è l’articolata stazione della metropolitana, capolinea sud-ovest della linea rossa.  

Bisceglie. Una spianata dove rumore, polveri e confusione regnano padroni; una spianata che ti disorienta, fulcro di trasporti e di traffico scatenato, una spianata che ti fa sentir piccolo e anonimo. Roba da agorafobia. E poi, appartato su un lato, quasi con vergogna, se ne sta il Beccaria, il carcere minorile, bidone della spazzatura dove la società nasconde i suoi rifiuti più imbarazzanti, i suoi fallimenti più eclatanti. E quel lungo muro imbrattato di rabbia e frasi d’amore, grida d’ignoti messi ai margini o alla disperata ricerca di una comunicazione col mondo…Quanti posti peggiori di questo possono esserci in una città?

Ma non so perché, quando dalla Cinquantotto scendo sugli stradoni a quattro corsie dove sfrecciano colonne di macchine, e timoroso mi appresto ad attraversarli per raggiungere le strisce di banchine dall’altra parte, c’è qualcosa che mi cattura. E così procedo attento, sotto un sole estivo ancora pallido e clemente; avanzo quasi ammirato, quasi rispettoso nello scorbutico crocevia.

Non so cos’è. Forse quello skyline di periferia oltre gli spazi aperti, quelle torri di vetro che sembrano riflettere acqua fresca, sullo sfondo di un celeste rarefatto; quei grattacieli che segnalano vita civile al di là di un luogo abbandonato a se stesso. Forse è proprio il cielo che si espande così libero negli ampi vuoti ai margini di Milano. Forse è perché ai piedi dei grattacieli c’è il quartiere di Corsico dove sono cresciuto, e lo intravvedo. Forse è perché Bisceglie mi ricorda Avcılar, caotico snodo stradale di Istanbul, tanto arido quanto legato a miei ricordi di emozionanti arrivi.

Osservo i fiotti di gente che fuoriescono dagli sbocchi del metro, gli schizzi di gente che scende dagli autobus e scompare sotto terra, i grappoli di gente assembrata sotto le tettoie scure in attesa del passaggio di qualcosa, i pullman che girano nello spiazzo e caricano lavoratori già seri e concentrati. I lavoratori. Ecco forse che cos’è. Al mattino presto, Bisceglie è un porto che imbarca lavoratori su lavoratori, uno dei punti più dinamici della città, dove il quotidiano rituale del lavoro prende ritmo e forma.

Anche questa mattina, alla solita ora, puntuale, anche il mio pullman parte adagio adagio; un giro largo, il semaforo, curva a destra e in un attimo la spianata di Bisceglie è alle spalle. Non prima che io abbia gettato un’ultima occhiata al suo strano paesaggio, piuttosto desolante ma su cui aleggia qualcosa, quel qualcosa che mi ha spinto a scrivere.