I miei racconti

NATALE PER STRADA (racconto)

Pietro Santini si trovava al centro di Piazza Venezia, un piccolo puntino in una girandola di auto e luci che aveva il suo fulcro nel gigantesco albero di Natale scintillante. Sullo sfondo dominava l’immensità del Vittoriano, un’imponente bocca di marmo con denti di colonne raggianti di giallo. L’uomo osservava la frenesia della vigilia di Natale standosene in disparte all’imbocco di Via del Corso, anch’essa tutta segnata a perdita d’occhio da decorazioni sfolgoranti. Ma lui non poteva confondersi in quella massa allegra e trepidante, tutta intenta a portare a termine i preparativi per la grande festa, tra chi doveva provvedere ai regali dell’ultimo minuto e chi si stava già dirigendo al cenone della vigilia, essendo già le cinque del pomeriggio. Lui non poteva farne parte perché era un “senza fissa dimora”, o meglio un barbone, anche se la barba l’aveva sì ispida ma non poi così lunga. Era riconoscibilissimo dai capelli lerci e appiccicaticci, dai suoi abiti lisi e chiazzati che non cambiava da mesi; il piumino e il cappello di lana pescati a novembre nell’immondizia non erano certo sufficienti a riparare una persona dal freddo invernale, se non fosse stato che ormai il suo corpo ci aveva fatto il callo. Sicuramente puzzava, all’igiene personale non ci badava più da tempo, ma di questo non era sicuro: il suo naso si era assuefatto e non sentiva più alcun odore emanare dalla propria persona. Senz’altro le mutande non erano certo in buone condizioni di pulizia, quello lo poteva vedere, chissà se la cintura dei pantaloni era sufficiente per evitare che ne filtrasse il tanfo…Mai come nel periodo di Natale si sentiva un corpo completamente estraneo alla società, un rifiuto umano emarginato da tutto e tutti per la colpa di essersi fatto scivolare in un baratro senza uscita, una colpa che non si perdona. A Natale tutti davano l’impressione di essere coesi in una concitata felicità collettiva all’insegna di festeggiamenti e compere, ma sopratutto all’insegna di un buonismo che a lui suonava falso ed evanescente come tutte quelle luci e quegli alberi addobbati, destinati ad essere smantellati e subito dimenticati nel giro di pochi giorni.

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Da quando era un senzatetto, Pietro Santini aveva preferito evitare il clima natalizio il più possibile, portando i suoi cartoni e le sue coperte su panchine romane lontane da quello spettacolo di gente che per almeno un mese inscenava il teatrino de “il mondo è bello, il mondo è magico adesso che lo vogliamo”. Quando la bolla di sapone colorata esplodeva in un niente, dopo la festa della Befana, lui poteva tornare a girovagare per altri undici mesi per le vie del centro storico senza che il cuore gli si rivoltasse troppo, sollevato di tornare a vedere le solite facce incazzate di uomini e donne che in fondo, al pari suo, tiravano a campare senza mete e senza effimere illusioni.

Anche quell’anno aveva fatto lo stesso, standosene ben fuori dalla mischia impazzita dagli inizi di dicembre al giorno precedente. Ne andava del suo stesso equilibrio mentale, già compromesso irreparabilmente. Però quella notte aveva inaspettatamente sognato qualcosa di tenero circa la sua infanzia: aveva rivisto il momento preciso in cui suo padre, il 25 dicembre di molti anni prima, gli aveva fatto trovare sotto l’albero la scatola di soldatini di piombo colorati che avevano visto insieme nella vetrina di un negozio di giocattoli vicino al Pantheon; suo padre doveva aver notato che si era soffermato a guardarla con desiderio, e aveva così deciso di esaudirglielo. Al risveglio da quel sogno era stato assalito da una dolce ed incontrastabile nostalgia verso quei momenti idilliaci e spensierati, quei momenti in cui per un bambino il mondo è ancora un posto meraviglioso e il Natale non può che servire a metterne in maggior risalto la bellezza coi suoi riflettori incantati.

Nel corso della mattinata non poté fare a meno di sfiorare col pensiero i Natali felici dei suoi quarantacinque anni di vita, quando lui era ancora una persona normale che accoglieva con buon umore quelle particolari settimane dell’anno, prima del punto di rottura che gli cambiò l’esistenza riducendola in condizioni vergognose e disumane. Dopo esser passato da uno dei suoi bar per farsi dare dalla porta sul retro la solita razione di pasta avanzata all’ora di pranzo, decise di entrare per una volta nel vivo della città impaziente per la festa seguendo un personale “percorso della memoria”. Il suo desiderio, infatti, era quello di mettersi sulle tracce del sé stesso smarrito visitando i luoghi chiave legati ai cari ricordi dei vecchi Natali, ricordi di colpo riemergenti dal pozzo nero in cui la sua mente annichilita li avevi inesorabilmente sepolti.

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La gente non sapeva perché quell’essere schifoso e sporco stava intralciando i propri movimenti per le strade durante la vigilia di Natale, non sapeva perché egli si stava dirigendo verso Piazza Navona. Non considerava nemmeno che potesse avere un nome, una storia. L’unica cosa che sapeva era che doveva evitarlo per bene, scendendo dal marciapiede in strada tra le macchine pur di non rischiare di sfiorarlo, come se solo respirare un po’ di aria maleodorante che emetteva potesse contagiarla di qualche brutta malattia infettiva; o forse faceva così per rifuggire la sua condizione infamante, per eludere il senso di colpa celato nell’inconscio. Ma lui ormai era avvezzo a tutto ciò, non ci faceva più quasi caso, era rassegnato al fatto di non esistere più per nessuno, alla stregua di un mostro semi invisibile e negato dalla Terra.  

Giunto in Piazza Navona fece fatica ad inoltrarsi nella selva di famiglie che la invadeva. L’aria era riempita da musiche, luci e colori provenienti dalle giostre rotanti e dalle bancarelle disposte su entrambi i lati che vendevano leccornie, giocattoli e piccoli oggetti d’ogni tipo. Le dimensioni della piazza risultavano dilatate dalla folla del mercatino, al punto che si faceva persino fatica a scorgere le tre celebri fontane, compresa quella dei Quattro Fiumi sotto l’alto obelisco al centro. Pietro camminava lentamente ai lembi esterni dell’ampio spazio ellittico, avvertendo la spiacevole sensazione di star recando disturbo con la sua presenza indesiderata a quella moltitudine gaudente; nel contempo riuscì nell’intento di ripescare i ricordi di sei anni prima, quelli dell’ultimo Natale sereno trascorso con la sua famiglia. Si arrestò davanti a un venditore di dolciumi e rivide sé stesso con Giulia e i loro bambini, Ilenia e Claudio…quel giorno di dicembre comprò a tutti loro dello zucchero filato e si divertì a guardare il piccolo Claudio che lo assaggiava per la prima volta, all’età di quattro anni. Il dolore per la scomparsa del figlioletto emerse subito forte e decisa dai reconditi anfratti in cui l’aveva confinato a forza. In quegli allegri momenti era ben lungi dal sapere che di lì a pochi mesi Claudio sarebbe morto per una sua imperdonabile disattenzione, evento che decretò anche la fine effettiva della sua vita, anche se non vi furono risvolti penali. La disperazione, lo strazio, l’ira della moglie che lo cacciò di casa, l’inizio del vagabondaggio e della cancellazione sistematica della propria persona, perché faceva schifo anche a sé stesso al punto da lasciarsi andare ad uno stato che nemmeno gli animali accetterebbero…tutto questo gli turbinava spaventosamente nella mente, temendo quasi che gliela potesse fare esplodere in mille pezzi, imbrattando le incredule persone lì attorno.

In un lampo distolse di colpo gli occhi dalla bancarella e, fissando la pavimentazione davanti ai suoi piedi, scappò da Piazza Navona, riuscendo col sollievo di una scossa interna a ricacciare nell’oblio quelle memorie infami. Proprio mentre svoltava in una strada si sentì urtare al fianco destro. Era un ragazzino che, camminando anch’egli distrattamente, non era riuscito ad evitarlo all’angolo. La mamma, che lo seguiva a un paio di metri di distanza, subito gli urlò: “Aò Riccà, li mortacci tua!! Ma nun vedi contro chi vai a cozzà? Abbiamo appena fatto il bagno oggi!! Stà attento quando cammini!”. Sì, Pietro era abituato a quei comportamenti, però con un sorriso sarcastico pensò che alla vigilia di Natale mettevano ancor più in luce l’ipocrisia della gente. Cose a cui tutto sommato non badava nemmeno lui quando era uno di loro, quando era convinto che effettivamente a Natale si è tutti più buoni.

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La tappa successiva del suo triste cammino era la Fontana di Trevi, a cui giunse dopo esser passato dal negozio di giocattoli dove suo padre gli comprò il dono di Natale che lo rese più felice durante l’infanzia.

Rimase fisso a rimirare i getti d’acqua verde smeraldo riversarsi dalle rocce ai piedi del grandioso palazzo di sfondo, osservò bene la statua di Oceano e quelle dei tritoni, constatando che loro non erano cambiati, al contrario suo. Erano sempre degli uomini dalle fattezze perfette, anche se di pietra, mentre lui si era deformato anche fisicamente, sino a divenire irriconoscibile, e di pietra gli era divenuto il cuore. Rimanendo alle spalle delle consuete file di turisti che facevano foto e lanciavano monetine nella vasca arrotondata, Pietro chiuse gli occhi e si concentrò sul suono continuo delle cascatelle d’acqua limpida. Lo trovò fresco e rilassante, e dopo qualche attimo ebbe la sensazione che questo scrosciare portava con sé delle chiare immagini della sua storia, proprio quelle che aveva sperato di far riemergere recandosi in quel luogo. Nella sua mente si delineò con precisione la scena in cui lui e Giulia, non ancora trentenni, si abbracciavano e scherzavano davanti alla fontana alla vigilia del loro primo Natale da marito e moglie. Gli risuonarono con sorprendente nitidezza alcune frasi che si scambiarono in quella serata: “Dai, esprimiamo tutti e due un desiderio, chiediamo alla fontana un regalo speciale”, propose Giulia estraendo dalla borsetta il portamonete; “Pietro, che cosa hai chiesto? – gli domandò dopo che ebbero fatto saltare le monetine voltando le spalle alla vasca – A me puoi dirlo…io ho chiesto di avere tre figli, e che siano tutti belli come te…”; e Pietro le rispose: “Ho chiesto di esser per sempre felice con te…e anche di fare carriera…di diventare dirigente…sennò come li manteniamo questi figli?”; e risero.

Una fitta gli fece contrarre lo stomaco, poi una vampata di calore gli mandò a fuoco la testa, costringendolo a levarsi il berretto. Da quando il suo corpo non dava reazioni? Probabilmente dal giorno in cui aveva cessato di provare emozioni. E in quell’istante avvertì una pena atroce per i loro sogni infranti, per il terzo figlio che non fecero in tempo a mettere al mondo, per il secondo che persero tragicamente…quanto al lavoro, dirigente d’azienda lo divenne per davvero nell’arco di qualche anno, grazie all’impegno e alla dedizione che ci mise. Un giovane e stimato manager che per i vertici aziendali risultò sparito di colpo nel nulla, dato per irreperibile dopo aver ricevuto una scarna lettera di dimissioni in concomitanza con le notizie apparse sui giornali circa la sua sciagura famigliare. Sicuramente lo avevano rimpiazzato adeguatamente e scordato in poco tempo.

Aprì bene gli occhi e mise a fuoco una coppietta baciarsi davanti alla fontana. Il dolore si trasformò in malinconia e, scrutando il fondale della vasca dopo essersi avvicinato, si domandò se le monetine da cento lire lanciate da lui e Giulia erano ancora lì, a luccicare tra le vive acque, o se erano state anch’esse risucchiate nel vortice di un abisso sperduto e sterminato.

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Pietro Santini si fece forza e trascinò le sue stanche membra sino a Piazza di Spagna. Come si era immaginato, la scalinata sinuosa era invasa da una calca invadente, mentre l’antistante Via Condotti era marcata da un fiume umano che toglieva il respiro allo sguardo. Quel punto della città gli era caro per tanti motivi, primo fra tutti per un’altra sua dolce rimembranza natalizia, risalente ai tempi dell’adolescenza.

Mancavano pochi giorni al 25 dicembre, lui e la sua compagnia di amici erano venuti in centro col solo scopo di schiamazzare, vogliosi di sprizzare tutta la loro carica di entusiasmo e voglia di vivere, per far sentire agli altri romani in festa che il mondo apparteneva a loro. Nel gruppo c’era anche Valentina, la sua prima cotta, quella che non si scorda mai. A dire il vero si era scordato di lei ancor più di come si era scordato della famiglia che creò poi con un’altra donna. Ma, lì impietrito tra la Fontana della Barcaccia e la famosa scalinata barocca, l’immagine della giovane Valentina si insinuò nella sua mente quasi spontaneamente. Si figurò con rimpianto il momento in cui, quasi trent’anni prima, lui e Valentina lasciarono il gruppo seduto ai primi gradini e salirono su a Trinità dei Monti. Era sera inoltrata e non c’era più nessuno là in cima; rimasero assorti a sognare di fronte agli sciami di finestre come lucciole sotto i tetti di Roma, agli aloni dorati delle cupole delle chiese contro il cielo nero ma lindo. Iniziarono a scambiarsi calde parole d’amore e, quando ridiscesero, gli amici se ne erano già andati a casa da un pezzo. Quante false promesse gli fece la vita quella sera, quanti beffardi miraggi a cui credette ingenuamente…

Pietro stava ancora annuendo col capo rivolto alla chiesa dai due campanili al culmine della salita, tagliata a metà dall’obelisco di poco innanzi, quando sentì una voce grossa che gli urlava: “…dico a te, a pezzente!! Ma te voi levà da li cojoni? Daje che me stai a rovinà ‘a foto!!”. Pietro ripiombò di colpo nei suoi panni da barbone, e se ne andò manifestando la sua stizza dandosi una grattata alle parti intime e rivolgendo un mugugno a quell’uomo tutto imbacuccato, che era già intento ad inquadrare la famigliola al completo carica di sacchetti di doni.

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Concluso il suo tragitto intriso di nostalgia e rimorso, Pietro si portò sul Lungotevere, seguendolo sino ad arrivare vicino al ponte Sant’Angelo, quello tutto puntellato da celestiali figure alate. Qui si issò sul muro di sponda e si mise a cavalcioni. Tenendo la testa avvolta nelle mani, stette seduto rivolto alla lucente cupola di San Pietro, avvilito da quella giornata che gli aveva risvegliato il tormento per la sua disgrazia e la coscienza dell’assoluta solitudine personale. Lo sguardo era sempre più catturato dalla mole del Cupolone dall’altra parte del Tevere, rotonda ed ingombrante, sulla cui cima immaginava di scorgervi la croce; gli venne allora naturale riflettere sullo strano meccanismo per cui la celebrazione di un evento evangelico, descritto in termini di assoluta semplicità ed umiltà, potesse essersi diffusamente trasformata in un festival commerciale chiassoso ed ostentato. Ebbe una scossa di ribrezzo verso la società umana ma anche verso sé stesso, e alla mente gli si insidiò l’idea di scendere dabbasso e lasciarsi cadere nel gelido fiume corrente; una manciata di attimi di estrema sofferenza e poi sarebbe stata la fine di tutto. Nessuno avrebbe pianto la sua scomparsa, e prima o poi qualcuno avrebbe fatto sparire la sua roba sudicia che aveva lasciato dietro una panchina al parco, unica sua traccia di esistenza al mondo. Un lungo brivido di freddo gli percorse la schiena, inducendolo a serrarsi nelle braccia dopo essersi assicurato che il piumino fosse ben chiuso sino al collo. Una lacrima di autocommiserazione si perse nei peli della barba incolta, se ne vergognò e cercò di rinfrancarsi col pensiero che una volta morto i suoi occhi non avrebbero più potuto produrre lacrime.

“Scusi signore, la disturbo?”. Ebbe un sussulto quando le parole pronunciate da una voce femminile proveniente dall’oscurità alle sue spalle troncarono questi cupi pensieri, sovrapponendosi nettamente al monotono brusio delle auto che scorrevano a pochi metri. Si voltò ma non riuscì a distinguere la figura alta e snella dai capelli corti. Era Valentina, che lo aveva riconosciuto nella calca delle vie del centro e lo aveva seguito, per togliersi la curiosità che fosse proprio lui? O forse era Giulia, che lo aveva perdonato e aveva deciso di andarlo a recuperare? Almeno avrebbe potuto rivedere Ilenia, che adesso doveva essersi fatta ragazza…No, non era né l’una né l’altra, loro gli avrebbero subito dato del tu, come d’altro canto chiunque farebbe con un barbone. Poi realizzò che dietro la donna misteriosa c’era un uomo distinto, che lo scrutava tenendo le mani infilate nelle tasche del cappotto marrone.

“Mi presento, io sono Ottavia e lui è mio marito Andrea. Farebbe meglio a scendere di lì, è un po’ pericoloso…”. I due si protesero verso il muretto per dargli una mano a discenderne e lui si stupì che non ebbero ribrezzo ad accettare quel contatto fisico.

“Senta, – riprese poi la donna – se le fa piacere abbiamo pensato di invitarla a casa nostra per il pranzo di domani in famiglia. Stanotte può dormire da noi, nella camera degli ospiti, potrà farsi una doccia e prendere vestiti e biancheria pulita. Ci sta?”

Pietro trascorse un attimo di incertezza e poi si risolse ad accettare l’invito, impegnandosi a drizzare la schiena perennemente inarcata: “Io vi ringrazio di cuore, credo che questo che mi fate sia un vero regalo di Natale, come penso di non averne mai ricevuti.”

“Perfetto! Però ci deve promettere che poi seguirà i consigli che le daremo per avere una decente assistenza quotidiana e per seguire un percorso di reinserimento nella collettività” gli disse con entusiasmo Andrea, il marito di Ottavia, che soggiunse: “La indirizzeremo verso organizzazioni e strutture che si prendono cura delle persone in difficoltà come Lei, se già non le conosce…Su, venga con noi.”  

“Va bene, d’accordo, grazie mille di nuovo, signori…”

E così Pietro seguì la coppia sino alla macchina posteggiata a due passi di distanza, che poi si mise per strada verso una casa con un tetto da qualche parte, lì a Roma. Per suo stupore avvertì la gradevole percezione di essere tornato a far parte di quell’umanità festante che lo avvolgeva; osservando fuori dal finestrino le luminarie che scorrevano nel traffico di mezzi, concluse che a ben guardare alcune di quelle persone il Natale lo stavano vivendo per davvero, rendendolo speciale anche ad altri.

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